L'arrampicata su roccia rappresenta per me il massimo del vivere la montagna; quando arrampico la roccia la stringo fra le mani, sento la sua temperatura, le sue rugosità. Con la roccia il contatto è intimo, privato. Ogni passaggio lo interpreto a modo mio, vedo gli appigli che mi piacciono e scelgo quelli al posto di altri. Quando il mio compagno mi chiede "Ehi! Ma da che parte sei passato?" difficilmente gli so dare una risposta certa. Quel passaggio posso averlo vinto in una maniera poco logica, ma che per me era perfetta così. Sulla roccia spesso canticchio, questo perchè sono rilassato, me la godo...e quando sono in sosta studio il tiro successivo, mi godo il panorama. Sulla roccia stò bene.
Sul ghiaccio ho avuto poche esperienze. Ma con esso non entro in un contatto come con la roccia, con lui non ho proprio contatto se non per qualche centimetro delle punte dei ramponi e della becca della picozza. Con il ghiaccio non ho un contatto fisico, e questo mi penalizza. Il ghiaccio rimane immobile (o almeno si spera sempre...) e ti lascia passare. Il ghiaccio non lo accarezzo, lo violento sotto i colpi dei miei ramponi e dei miei atrezzi. Atrezzi che hanno il difficile compito di sostituire le mani, privandomi del tatto che quando arrampico sulla roccia mi fa capire se l'appiglio e buono o no. Sul ghiaccio mi sento sempre un po' precario, come se fossi fuori posto, come se fossi un'appendice fastidiosa per la cascata. Tutto ciò mi fa muovere un po' goffamente, mentre vedo e invidio l'eleganza che gli altri cascatisti hanno. Si muovono come i gatti sui parapetti dei palconi, seguendo quelle forme sinuose e sfruttando quelle strutture magnifiche che solo sul ghiaccio si possono formare.
Roccia e ghiaccio, due mondi distanti ma entrambi interessanti.
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